Autore: Silvana De Mari
Anno di pubblicazione: 2007
Editore: Salani
Pagine: 148
Iniziato il: 30 maggio 2012
Terminato il: 30 maggio 2012
Valutazione: ★★★★
La letteratura fantastica è la prima che compare in ogni popolo. La prima cosa scritta su questo continente contiene la parola “ira”: “L’ira funesta cantami, o Diva, del Pelide Achille”.
(incipit)
Sono rimasta molto colpita da questo libro; mi aspettavo un saggio sulle fiabe, sulle loro origini, sulla loro evoluzione e invece ho trovato molto di più, qualcosa che proprio non mi aspettavo: ho trovato un libro in cui l’autrice grida tutta la sua indignazione per le mostruosità del presente e del passato.
In alcuni punti in effetti la De Mari si lascia molto andare rispetto a quanto ci si aspetti solitamente in un saggio, che dovrebbe essere il più possibile neutrale, però i temi sono troppo importanti per non arrabbiarsi. All’interno delle fiabe, infatti, si trova la rappresentazione della realtà, una realtà che si modifica con il passare dei secoli, e che viene sempre riflessa nei racconti che sono il porto sicuro di chi sa di poter trovare almeno lì un lieto fine. Ad esempio, le fiabe di Pollicino e di Hansel e Gretel sono nate in un’epoca in cui non era raro che i bambini venissero abbandonati o strappati alle loro famiglie, che si ritrovassero succubi di una matrigna perché la madre era morta di parto, che addirittura le guerre e le carestie portassero al cannibalismo (tanto che sono stati ritrovati documenti che vietavano espressamente di nutrirsi di cadaveri di bambini) e all’interno di queste fiabe si ritrovano i temi dell’abbandono, della povertà, la paura di essere in balia dell’Orco o della Strega di turno. Anche nei romanzi fantastici moderni si ritrova una trasposizione della realtà: nel “Signore degli Anelli” si rivive la Seconda Guerra Mondiale, l’oppressione dei totalitarismi e la paura per la distruzione del mondo.
I temi affrontati dalla De Mari sono moltissimi, dai roghi delle streghe agli ebrei deportati ai morti nei gulag russi, dalla violenza sui bambini a quella sulle loro madri, dalle Crociate agli attentati terroristici, tutti orrori che fanno sentire la propria eco nella narrazione fantastica proprio perché questa è l’unica che permette di affrontare il dolore e le sofferenze senza dovercisi scontrare davvero.
Il libro è pieno di spunti e di riferimenti bibliografici molto interessanti che sono entrati tutti diretti nella mia wishlist insieme al libro stesso, dato che il volume che ho letto l’ho preso in prestito in biblioteca ma ho tutta l’intenzione di comprarlo.
L’unico aspetto che mi ha lasciato un po’ perplessa è il riferimento, che compare molte volte, che la De Mari fa ai suoi stessi libri: può andare bene una volta e solo se affiancato all’analisi di molti altri romanzi fantastici contemporanei, mentre nel volume l’autrice cita e rimanda più volte ai suoi stessi libri e cita in modo approfondito due sole opere fantasy, ovvero “Il Signore degli Anelli” e “Harry Potter”. Questo mi ha fatto pensare ad un tentativo di far incuriosire il lettore e fargli acquistare i suoi romanzi, però magari sono io che sono sempre prevenuta…
In realtà la fiaba, la narrazione fantastica senza alcuna pretesa di verosimiglianza, nata dal basso, spontanea e anonima, proprio per il suo contenuto fantastico e per il lieto fine che c’è sempre, è in assoluto la narrazione che è più vicina alla realtà storica: è l’unica narrazione dove la realtà storica, di qualsiasi tipo, sia stata rappresentata.
Nelle fiabe essa [la miseria] è da sempre uno dei protagonisti, insieme alla fame, alla paura, all’infanticidio, all’idea che i bimbi possano essere scacciati, allontanati, venduti, scambiati, abbandonati in un bosco buio dove un Orco orrendo li mangerà per cena, a meno che una fila di sassolini che brillano sotto la luna non li riporti a casa dove nessuno li vuole. Noi non abbiamo idea di cosa sia stata sul nostro suolo la vita dei bambini.
Ci dice Kafka che la realtà non può essere guardata in faccia, abbiamo bisogno di un velo che la copra. Quel velo può essere il genere fantastico. Diceva Italo Calvino: la fantasia è come la marmellata, uno non se la può mangiare a cucchiai, perché dopo il terzo cucchiaio ne ha fino qui. La marmellata va messa sul pane, cioè va messa su un sapore diverso: “la fantasia va messa su qualcosa di reale”.
La maternità umana è sempre un incrocio tra il dubbio sulla scelta da fare e il senso di colpa per la scelta fatta. [...] Noi abbiamo rinunciato alla certezza di sapere sempre qual’è la cosa giusta, per diventare uomini.
La fantasy ci evita una tragedia che invece è la nostra tragedia permanente: cercare di capire quale sia la parte giusta, quale quella sbagliata. Ogni tanto ci guardiamo tutti in faccia e ci chiediamo come abbiamo fatto a bruciare le streghe in piazza, o mettere i bambini sui treni per Auschwitz.
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